Tour de France 2014, Semplicemente Vincenzo
Nel meraviglioso Tour de France di Vincenzo Nibali, ci sono tre momenti chiave che hanno indirizzato la corsa verso l’epilogo che abbiamo visto e che tanto ci ha appassionati.
Il primo momento è stata la stoccata di Sheffield: in una tappa difficile, tutta corsa su salitelle in successione che non davano respiro, lo Squalo ha affondato il colpo a meno di 2 km dall’arrivo, mentre il gruppo dei favoriti si stava guardando. Uno scatto secco, incertezza nel resto del plotoncino, Froome che provava ad inseguire con Rui Costa per alcune centinaia di metri ma, nella brevissima ma significativa sfida diretta, rimbalzava indietro, desistendo, il fresco campione d’Italia che trionfava, vantaggio piccolo ma con una netta superiorità .
Il secondo momento - ovviamente - era la tappa di Arenberg. A 50 km dall’arrivo, nel secondo tratto di pavè, Nibali si accorgeva che Contador stava faticando a guidare la bici e si era creato un buco (mentre Froome era già salito in ammiraglia, vittima di una frattura all’avambraccio destro, conseguenza di tre cadute in due giorni). In quell’attimo, l’Astana iniziava a forzare in modo spietato, con un attacco di squadra tanto organizzato quanto spettacolare. Sui sassi della Roubaix, Nibali e Fuglsang, e poi anche Lieuwe Westra in fuga dal mattino e “incontrato” strada facendo, come novelli De Vlaeminck e Moser, aprivano una voragine che inghiottiva tutti gli uomini di classifica. Il dazio pagato da tutti si aggirava intorno ai 2’00”, il tributo versato da Contador al messinese era addirittura quantificato in 2’35”. Se il colpo di Sheffiled aveva avuto un valore eminentemente psicologico, l’offensiva nell’Inferno del Nord era servita a spostare gli equilibri della corsa in modo tangibile e consistente in favore dello Squalo. La domanda che tutti si ponevano era: potrà Contador recuperare in salita quanto perso ad Arenberg?
Il primo arrivo in salita a Gerardmer - ed eccoci al terzo momento chiave - ci suggerisce che non era possibile. La breve ma ripida ascesa vedeva due attacchi rabbiosi del madrileno, a cui il siciliano rispondeva brillantemente, concedendo solo 3" all’arrivo, a suo dire per un errore nella cambiata, ma dando la sensazione di essere, se non superiore, almeno al pari di Alberto. La riprova non l’abbiamo avuta, perché anche Contador, come già Froome, veniva costretto al ritiro due giorni dopo per una caduta in discesa, con conseguente frattura.
Lo stesso giorno, Enzo dominava sulla salita de La Planche des Belles Filles, ribadendo la sua netta superiorità nei confronti di tutti gli altri contendenti. Superiorità ribadita nel primo arrivo in quota sulla Alpi a Chamrousse dove Vincenzo trionfava in maglia gialla, primo italiano a farlo dopo Felice Gimondi nel 1965 (e, se consideriamo le tappe in linea, il predecessore è niente meno che Fausto Coppi nel 1952!).
Dopo una fase di controllo sulle restanti salite (ma dove guadagnava sempre sui rivali), il trionfo era suggellato con un’ultima vittoria pirenaica, ad Hautacam. Un fantastico Nibali, aiutato in ciò anche dal venir meno strada facendo di Froome e Contador, mascherava le lacune di un’Astana buona ma non eccellente. Infatti, la maglia gialla si trovava spesso da sola sulla salita finale delle varie tappe di montagna. Ok, Nibali sopperiva attaccando e staccando i rivali, e così togliendosi d’impaccio. È sicuro però che, se ci fossero stati i due favoriti iniziali, alcune situazioni avrebbero potuto creare problemi maggiori.
Fuglsang pareva in grande forma, ed era stato fantastico sul pavè, ma alcune cadute (incredibile quella in discesa, per una borraccia piena accidentalmentae scaraventatagli tra le ruote da Jurgen Van den Broeck!) ne hanno limitato il rendimento nelle tappe decisive. Eccellente Westra, sia sulle pietre che in salita; d’altra parte, la vittoria di tappa al Criterium du Dauphiné corso in giugno aveva lasciato intendere che Lieuwe sarebbe stato un gregario molto importante.
Luci ed ombre, invece, per Michele Scarponi, sul quale vale le pena spendere due parole. Le grandissime prove al campionato italiano prima e nel tappone dei Vosgi poi lasciavano sperare in un ottimo rendimento. In realtà , il marchigiano funzionava solo a sprazzi ma d’altronde, un paio di indizi in questi senso c’erano. In primo luogo, Michele aveva preparato il Giro d’Italia e, per lui, non abituato al doppio impegno Giro-Tour, sarebbe stato arduo essere al top della condizione in Francia. In secondo luogo, Michele non è… un “tourista”, nel senso che non ha il Tour nelle corde, e quando c’era andato negli anni passati non aveva mai combinato granché. Ci sono alcuni corridori che al Tour si esaltano, forma o non forma, e rendono al massimo (Chiappucci, Pantani e Virenque, ma prima di tutti Bartali); altri invece che non lo digeriscono, che rendono meno di quanto teoricamente potrebbero (mi viene in mente Gibo Simoni, ma anche Roberto Heras tendeva a sparire). È evidente che a Scarponi il Tour non piace, o comunque lo subisce, e a 35 anni è dura cambiare approccio. Aggiungiamo che soffre sia il grande freddo che il troppo caldo, e la conclusione viene spontanea.
Dagli altri, di più non si poteva pretendere, ma - a parte Vanotti, a suo modo un leader nella sua specialità di gregariato puro - il livello non era eccelso, soprattutto per quanto riguarda la compagine kazaka, convocata per ovvie ragioni nazionalistiche. Per cui mi chiedo (ma è una domanda retorica) quanto sarebbe stato più utile un gregario molto forte e fidato come Valerio Agnoli, ce tra l’altro a fine anno cambierà squadra. Invece di prendersela con il solo Scarponi, Vinokourov mediti sulle scelte tecniche effettuate.
Volendo giocare a trovare analogie tra il Tour di Nibali e quello del 1998 vinto da Pantani, la maggiore somiglianza – a mio avviso - sta proprio nelle rispettive squadre. Sia l’Astana del 2014 che la Mercatone Uno del 1998 erano squadre buone ma non eccelse. Nibali, come già Pantani, si è trovato un po’ solo in alcuni frangenti. I punti in comune terminano qui: per tutto il resto, sono stati Tour estremamente diversi. Pantani si presentò al via di Dublino in precarie condizioni di forma, poi sulle Alpi ribaltò una Boucle che sembrava già vinta da Ullrich, attaccando nel punto più duro di tutto il percorso (complessivamente morbido), a Les Granges Du Galibier.
Nibali è partito subito forte con la vittoria alla seconda tappa, ha preso subito la maglia e, tranne che per la festa del 14 luglio, non l’ha mai mollata, dominando in lungo e in largo sulle tre settimane un Tour altimetricamente impegnativo (e con appena 54 km a cronometro).
In fondo, è meglio così. Meglio non dover per forza cercare ricorsi storici. Meglio non dover necessariamente individuare punti in comune tra campioni totalmente diversi, con storie profondamente diverse. Meglio che questo – molto semplicemente – rimanga alla storia come il Tour de France di Vincenzo Nibali.
Il primo momento è stata la stoccata di Sheffield: in una tappa difficile, tutta corsa su salitelle in successione che non davano respiro, lo Squalo ha affondato il colpo a meno di 2 km dall’arrivo, mentre il gruppo dei favoriti si stava guardando. Uno scatto secco, incertezza nel resto del plotoncino, Froome che provava ad inseguire con Rui Costa per alcune centinaia di metri ma, nella brevissima ma significativa sfida diretta, rimbalzava indietro, desistendo, il fresco campione d’Italia che trionfava, vantaggio piccolo ma con una netta superiorità .
Il secondo momento - ovviamente - era la tappa di Arenberg. A 50 km dall’arrivo, nel secondo tratto di pavè, Nibali si accorgeva che Contador stava faticando a guidare la bici e si era creato un buco (mentre Froome era già salito in ammiraglia, vittima di una frattura all’avambraccio destro, conseguenza di tre cadute in due giorni). In quell’attimo, l’Astana iniziava a forzare in modo spietato, con un attacco di squadra tanto organizzato quanto spettacolare. Sui sassi della Roubaix, Nibali e Fuglsang, e poi anche Lieuwe Westra in fuga dal mattino e “incontrato” strada facendo, come novelli De Vlaeminck e Moser, aprivano una voragine che inghiottiva tutti gli uomini di classifica. Il dazio pagato da tutti si aggirava intorno ai 2’00”, il tributo versato da Contador al messinese era addirittura quantificato in 2’35”. Se il colpo di Sheffiled aveva avuto un valore eminentemente psicologico, l’offensiva nell’Inferno del Nord era servita a spostare gli equilibri della corsa in modo tangibile e consistente in favore dello Squalo. La domanda che tutti si ponevano era: potrà Contador recuperare in salita quanto perso ad Arenberg?
Il primo arrivo in salita a Gerardmer - ed eccoci al terzo momento chiave - ci suggerisce che non era possibile. La breve ma ripida ascesa vedeva due attacchi rabbiosi del madrileno, a cui il siciliano rispondeva brillantemente, concedendo solo 3" all’arrivo, a suo dire per un errore nella cambiata, ma dando la sensazione di essere, se non superiore, almeno al pari di Alberto. La riprova non l’abbiamo avuta, perché anche Contador, come già Froome, veniva costretto al ritiro due giorni dopo per una caduta in discesa, con conseguente frattura.
Lo stesso giorno, Enzo dominava sulla salita de La Planche des Belles Filles, ribadendo la sua netta superiorità nei confronti di tutti gli altri contendenti. Superiorità ribadita nel primo arrivo in quota sulla Alpi a Chamrousse dove Vincenzo trionfava in maglia gialla, primo italiano a farlo dopo Felice Gimondi nel 1965 (e, se consideriamo le tappe in linea, il predecessore è niente meno che Fausto Coppi nel 1952!).
Dopo una fase di controllo sulle restanti salite (ma dove guadagnava sempre sui rivali), il trionfo era suggellato con un’ultima vittoria pirenaica, ad Hautacam. Un fantastico Nibali, aiutato in ciò anche dal venir meno strada facendo di Froome e Contador, mascherava le lacune di un’Astana buona ma non eccellente. Infatti, la maglia gialla si trovava spesso da sola sulla salita finale delle varie tappe di montagna. Ok, Nibali sopperiva attaccando e staccando i rivali, e così togliendosi d’impaccio. È sicuro però che, se ci fossero stati i due favoriti iniziali, alcune situazioni avrebbero potuto creare problemi maggiori.
Fuglsang pareva in grande forma, ed era stato fantastico sul pavè, ma alcune cadute (incredibile quella in discesa, per una borraccia piena accidentalmentae scaraventatagli tra le ruote da Jurgen Van den Broeck!) ne hanno limitato il rendimento nelle tappe decisive. Eccellente Westra, sia sulle pietre che in salita; d’altra parte, la vittoria di tappa al Criterium du Dauphiné corso in giugno aveva lasciato intendere che Lieuwe sarebbe stato un gregario molto importante.
Luci ed ombre, invece, per Michele Scarponi, sul quale vale le pena spendere due parole. Le grandissime prove al campionato italiano prima e nel tappone dei Vosgi poi lasciavano sperare in un ottimo rendimento. In realtà , il marchigiano funzionava solo a sprazzi ma d’altronde, un paio di indizi in questi senso c’erano. In primo luogo, Michele aveva preparato il Giro d’Italia e, per lui, non abituato al doppio impegno Giro-Tour, sarebbe stato arduo essere al top della condizione in Francia. In secondo luogo, Michele non è… un “tourista”, nel senso che non ha il Tour nelle corde, e quando c’era andato negli anni passati non aveva mai combinato granché. Ci sono alcuni corridori che al Tour si esaltano, forma o non forma, e rendono al massimo (Chiappucci, Pantani e Virenque, ma prima di tutti Bartali); altri invece che non lo digeriscono, che rendono meno di quanto teoricamente potrebbero (mi viene in mente Gibo Simoni, ma anche Roberto Heras tendeva a sparire). È evidente che a Scarponi il Tour non piace, o comunque lo subisce, e a 35 anni è dura cambiare approccio. Aggiungiamo che soffre sia il grande freddo che il troppo caldo, e la conclusione viene spontanea.
Dagli altri, di più non si poteva pretendere, ma - a parte Vanotti, a suo modo un leader nella sua specialità di gregariato puro - il livello non era eccelso, soprattutto per quanto riguarda la compagine kazaka, convocata per ovvie ragioni nazionalistiche. Per cui mi chiedo (ma è una domanda retorica) quanto sarebbe stato più utile un gregario molto forte e fidato come Valerio Agnoli, ce tra l’altro a fine anno cambierà squadra. Invece di prendersela con il solo Scarponi, Vinokourov mediti sulle scelte tecniche effettuate.
Volendo giocare a trovare analogie tra il Tour di Nibali e quello del 1998 vinto da Pantani, la maggiore somiglianza – a mio avviso - sta proprio nelle rispettive squadre. Sia l’Astana del 2014 che la Mercatone Uno del 1998 erano squadre buone ma non eccelse. Nibali, come già Pantani, si è trovato un po’ solo in alcuni frangenti. I punti in comune terminano qui: per tutto il resto, sono stati Tour estremamente diversi. Pantani si presentò al via di Dublino in precarie condizioni di forma, poi sulle Alpi ribaltò una Boucle che sembrava già vinta da Ullrich, attaccando nel punto più duro di tutto il percorso (complessivamente morbido), a Les Granges Du Galibier.
Nibali è partito subito forte con la vittoria alla seconda tappa, ha preso subito la maglia e, tranne che per la festa del 14 luglio, non l’ha mai mollata, dominando in lungo e in largo sulle tre settimane un Tour altimetricamente impegnativo (e con appena 54 km a cronometro).
In fondo, è meglio così. Meglio non dover per forza cercare ricorsi storici. Meglio non dover necessariamente individuare punti in comune tra campioni totalmente diversi, con storie profondamente diverse. Meglio che questo – molto semplicemente – rimanga alla storia come il Tour de France di Vincenzo Nibali.
Marco Bottai
Tour de France 2014, Semplicemente Vincenzo
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